Ora questa tradizione
“caratteriale” si respira in lungo e in largo in questo piccolo gioiello
caleidoscopico di un jazz trasversale macchiato di gestacci zappiani e lucidità
“classiche” (indipendentemente dall'ascendenza linguistica, quindi mi riferisco
anche al rock e al Novecento storico). Tutto parte dall'assemblaggio delle
timbriche: fiati sparsi tra Marc
Maffiolo (sax basso e tenore) e Ferdinand
Doumerc (flauto e sax baritono, sopranino, alto e tenore), apparato
percussivo in mano a Stéphane Gratteau
(batteria) e Guillaume Amiel
(marimba bassa, vibrafono e altri aggeggi), apparente maestro concertatore Réme Leclerc (piano elettrico Fender
Rhodes, un bel Moog guastatore, organo Hammond e Clavinet), chiude la banda Maxime Delporte al contrabbasso.
Il catalogo dei suoni è
ritagliato con cura e riassemblato con lo spirito di un puzzle cubista. Strani
incontri tra i Pink Floyd e Lionel Hampton (Un peuplier un peu
plié), Zappa e Shostakovich (la marcetta nevrotica La
serrure). E ancora: variazioni contemporary e free jazz (Sprouts),
lounge e striature davisiane (Nebulos, Troïde), blues da Big Band
e dissonanze pianistiche (Soft Fate e
Fast Fate), ruggiti di primitivismo minimalista tra Varèse, Steve Reich ed Henry Cow
(Boletus Edulis... eh sì, un elogio al fungo porcino) ed echi di colonne
sonore di probabili telefim (Le Chifre). Emblematica e riassuntiva la
vorticosa Dynamique cassoulet in cui gli Stabat Akish ci portano in
viaggio attraverso i generi più disparati: inizio bachiano conertito presto in
un'inaspettata cesura heavy con uno sviluppo samba jazz e una chiusura crooner
alla Platters.
© Riccardo Storti
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