Rilettura. Questa parola mi piace di più. Cover, meno. Cover mi fa pensare
a qualcosa che copre, ma anche a qualcuno che copia (benché, nel secondo caso,
l'etimo non c'entri nulla).
E niente. Mi arriva questa proposta buona come il pane. Anzi: i Pane. Ricordo
bene quando nel 2011 fecero uscire quel lavoro così nitido e affascinante,
passato sotto il titolo di Orsa Maggiore,
così ricco di richiami letterari (Majakovskij e Bufalino, tanto per dire)
colorati di atmosfere folk-prog.
La band romana, oggi ridotta a trio (voce, chitarra e flauto/bansuri), si
misura con l'opera dei Doors, ergo con l'aura performativa di Jim Morrison; una
scommessa ricca di ambizioni e irta di trabocchetti. Sì, perché, possiamo
sproloquiare quanto vogliamo intorno ai Doors e squadernare la solita ridda di
luoghi comuni, ma, se non usi la chiave giusta, la porta non si apre. I Doors
non furono latori di un rock armonicamente e melodicamente complesso; chi di
noi, da ragazzino, ha imbracciato una chitarra, sa che non ci è voluto molto ad
imparare gli accordi di Light My Fire
o di Roadhouse Blues. Ma fino a che
si gioca sulla spiaggia o sui prati durante la scampagnata fuori porta (eccola
lì, di nuovo lei, la porta... ), tutto è lecito.
Tutto, invece, muta quando si desidera
dare vita ad un progetto con un ensemble acustico e ci si vuole misurare,
prima, con i colori e, poi, con la linea. E ti esce fuori un "altro"
mondo, ma l'anima sta lì e gira intorno al suo massimo interprete: Jim
Morrison. La tagliola è ben nascosta tra i cespugli del grazioso giardinetto. Se
lo scimmiotti, lui ti castiga (e con ragione). Non facile, quindi, il compito
di Claudio Orlandi che deve interpretare Morrison restando se stesso,
rinunciando a tentazioni imitative che, presto, potrebbero trasformarsi in
pericolosi e iperbolici boomerang di retorico manierismo.
La cornice aiuta: una chitarra, suonata da Vito Andrea Arcomano, che si
permette intervalli tonali, talvolta, vagamente jazzy (se non quasi bossanova
in I Can't SeeYour Face in My Mind),
tanto per donare ai brani un'atmosfera addirittura più dilatata; l'accoppiata
flauto/bansuri organizzata da Claudio Madaudo dà luce e calore all'impianto
generale. Non è solo un'idea a reggere, ma anche l'effetto raffinato che si
sprigiona già dai primi brani. Le suggestioni prog non mancano, come in Yes, the River Knows e Blue
Sundays (a tratti quasi trasformate in ballad crimsoniane) e Waiting for the Sun (molto Jethro Tull).
Fanno centro Wishful Sinful, Alabama Song (ormai di terza mano...), You're Lost Little Girl (con un clima
mediterraneo tra Sorrenti, L'Era di Acquario e il Cervello) e The Crystal Ship.
L'apice, però, si tocca dove noi siamo lì ad aspettarli al varco: Light My Fire e The End. La prima mostra nell'incipit un basso profilo dinamico,
parzialmente (e volutamente) sfilacciato per poi salire e prendere il volo
grazie ad un solo di flauto di rifinita bellezza calligrafica. La seconda, un
monumentale tributo nel tributo: oltre un quarto d'ora, in pratica un viaggio
inedito tra le pieghe di una composizione tra le più note (e controverse) della
storia del rock. È l'esame finale. Una lunga introduzione acustica tra
"oriente e occidente", quindi, trascorsi 3 minuti, Orlandi racconta,
canta e declama. Ora non lo aspettiamo più al varco, ma lo seguiamo; non lo
perdiamo di vista tra i fumi del bansuri di Madaudo e le risonanze sitaristiche
della chitarra di Arcomanno. I dubbi, nel caso vi fossero stati, si sono
dissipati e le porte si sono spalancate.
(Riccardo Storti)
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