domenica 15 aprile 2018

PANE - "The River Knows (A Tribute To The Doors)" (New Model Label, 2018)


Rilettura. Questa parola mi piace di più. Cover, meno. Cover mi fa pensare a qualcosa che copre, ma anche a qualcuno che copia (benché, nel secondo caso, l'etimo non c'entri nulla).
E niente. Mi arriva questa proposta buona come il pane. Anzi: i Pane. Ricordo bene quando nel 2011 fecero uscire quel lavoro così nitido e affascinante, passato sotto il titolo di Orsa Maggiore, così ricco di richiami letterari (Majakovskij e Bufalino, tanto per dire) colorati di atmosfere folk-prog.
La band romana, oggi ridotta a trio (voce, chitarra e flauto/bansuri), si misura con l'opera dei Doors, ergo con l'aura performativa di Jim Morrison; una scommessa ricca di ambizioni e irta di trabocchetti. Sì, perché, possiamo sproloquiare quanto vogliamo intorno ai Doors e squadernare la solita ridda di luoghi comuni, ma, se non usi la chiave giusta, la porta non si apre. I Doors non furono latori di un rock armonicamente e melodicamente complesso; chi di noi, da ragazzino, ha imbracciato una chitarra, sa che non ci è voluto molto ad imparare gli accordi di Light My Fire o di Roadhouse Blues. Ma fino a che si gioca sulla spiaggia o sui prati durante la scampagnata fuori porta (eccola lì, di nuovo lei, la porta... ), tutto è lecito.
Tutto, invece,  muta quando si desidera dare vita ad un progetto con un ensemble acustico e ci si vuole misurare, prima, con i colori e, poi, con la linea. E ti esce fuori un "altro" mondo, ma l'anima sta lì e gira intorno al suo massimo interprete: Jim Morrison. La tagliola è ben nascosta tra i cespugli del grazioso giardinetto. Se lo scimmiotti, lui ti castiga (e con ragione). Non facile, quindi, il compito di Claudio Orlandi che deve interpretare Morrison restando se stesso, rinunciando a tentazioni imitative che, presto, potrebbero trasformarsi in pericolosi e iperbolici boomerang di retorico manierismo.
La cornice aiuta: una chitarra, suonata da Vito Andrea Arcomano, che si permette intervalli tonali, talvolta, vagamente jazzy (se non quasi bossanova in I Can't SeeYour Face in My Mind), tanto per donare ai brani un'atmosfera addirittura più dilatata; l'accoppiata flauto/bansuri organizzata da Claudio Madaudo dà luce e calore all'impianto generale. Non è solo un'idea a reggere, ma anche l'effetto raffinato che si sprigiona già dai primi brani. Le suggestioni prog non mancano, come in Yes, the River Knows  e Blue Sundays (a tratti quasi trasformate in ballad crimsoniane) e Waiting for the Sun (molto Jethro Tull). Fanno centro Wishful Sinful, Alabama Song (ormai di terza mano...), You're Lost Little Girl (con un clima mediterraneo tra Sorrenti, L'Era di Acquario e il Cervello) e The Crystal Ship.
L'apice, però, si tocca dove noi siamo lì ad aspettarli al varco: Light My Fire e The End. La prima mostra nell'incipit un basso profilo dinamico, parzialmente (e volutamente) sfilacciato per poi salire e prendere il volo grazie ad un solo di flauto di rifinita bellezza calligrafica. La seconda, un monumentale tributo nel tributo: oltre un quarto d'ora, in pratica un viaggio inedito tra le pieghe di una composizione tra le più note (e controverse) della storia del rock. È l'esame finale. Una lunga introduzione acustica tra "oriente e occidente", quindi, trascorsi 3 minuti, Orlandi racconta, canta e declama. Ora non lo aspettiamo più al varco, ma lo seguiamo; non lo perdiamo di vista tra i fumi del bansuri di Madaudo e le risonanze sitaristiche della chitarra di Arcomanno. I dubbi, nel caso vi fossero stati, si sono dissipati e le porte si sono spalancate.
(Riccardo Storti)    

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