Dopo il successo di New
Seed del 1990, la band riuscì a dare alle stampe un bis nel 1994 (Sun Years) ma l’accumularsi di problemi
finanziari costrinse gli Easy a sciogliersi e, in
parte, a riformarsi, cambiando nome (Fly) e avvicinandosi di più al mainstream.
A vent’anni dall’album d’esordio,
gli Easy si riformarono per riproporre il loro repertorio dal vivo. Non solo:
quella fu anche l’occasione per lavorare a materiali inediti che, una volta
raccolti, sarebbero stati inseriti in un CD; cosa che accadde nel 2017, proprio
con A
Heartbeat From Eternity, prodotto da un nome di punta della discografia
svedese, Charlie Storm.
Sarebbe un’esagerazione affermare
che gli Easy di oggi siano un altro gruppo rispetto a quello dei primi Novanta.
Certo: sono trascorsi quasi 30 anni e in questi 30 anni la musica ha mutato
pelle mille volte tra mille corsi e ricorsi.
Diciamo che si sono raffinati,
pur avendo mantenuto vivo il fuoco delle radici. Intanto il sound: chitarre
meno distorte, più pulite, qualche aiutino timbrico atmosferico regalato dalle
tastiere, ma il solido connubio ruspante basso-batteria, talvolta, esce fuori
con allegra prepotenza, quasi a ricordare certi peccatucci ritmici di gioventù
(la contagiosa It’s OK to Cry).
In tutto questo ne ha guadagnato
notevolmente la scrittura armonica e melodica: i ritornelli sono prensili e
catturano l’attenzione dell’ascoltatore con intelligenza. Gli Easy hanno
imparato a sfrondare la nutriente selva noise, imparata sui solchi dei Sonic Youth, Einstürzende Neubauten, My
Bloody Valentine e Jesus and Mary
Chain, per giungere a definire meglio il loro disegno sonoro, raggiungendo
uno stile autonomo, maturo, eppure, fresco in quanto diretto e spontaneo.
Sono degli impenitenti shoegazer
che, nel 2017, sanno cucire per sé abiti su misura, perché, nel frattempo,
hanno attraversato ere musicali tra stili capaci di farli crescere, misurandosi
con le varianti pop contemporanee neopsych (Song
to Remember è una “Hush2.0”), brit (For
Beauty), dream (Swimming with the
Beast e I Belong Wherever You Will
Take Me) e indie anni Novanta alla Belle
and Sebastian (The Reincarnated)
o alla Primal Scream (I Can Tell You Why
e Little Boy). Al tempo stesso, però,
possono vantare collegamenti lontani con “classici” della New Wave come i Cure (Ghost of Nero), New Order
e Simple Minds (Ask the Sky) o addirittura del krautrock (l’ipnotica ripetitività
di A Picture (I’ve got Mine) è figlia
dei Can e dei Nue!).
La piacevolezza, però, è
veramente l’ingrediente cardine di un disco che non stanca e che, comunque, non
costringe a dare un’occhiata al calendario.
(Riccardo Storti)
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