Erano anni che Ciro Perrino ci girava intorno. Il primo amore non si scorda
mai e i materiali nel cassetto non mancavano al fine di potere dare la sveglia
a quel "principe di un giorno", tranquillo trai suoi sogni dal 1976.
Certo che deve essere stato un bel trauma sobbalzare a colpi di partiture
rigenerate nel bel mezzo del 2019.
In realtà, se è vero che Perrino sia ripartito da dove il
"principe" si fosse fermato (con tutti i recuperi stilistici del
caso), risulta altrettanto vero che questa nuova prova collettiva dei rinnovati
Celeste è il prodotto delle svariate ed eclettiche stratificazioni creative,
maturate nei decenni dal compositore matuziano.
L'imprinting originale, attinto prevalentemente dai King Crimson
"acustici" (che, però, non rinunciano alle magie elettrofoniche del
mellotron), resta ma si fonde alle esperienze di un musicista che ha
attraversato settori eterogenei (elettronica, classica contemporanea e
repertorio pianistico estemporaneo) sempre con entusiastica curiosità.
Nella sua complessità, Il Risveglio del Principe si fa apprezzare soprattutto per le costruzioni armoniche e
gli accostamenti timbrici. Si capisce lontano un miglio che il lavoro di
arrangiamento e giustapposizione delle suoni è nato da un profondo (e - mi pare
anche di capire - faticoso) lavoro.
I primi King Crimson (triennio 69-71)
più tenui e sfumati danno la stura a brani come l'opener Fior di loto, Bianca vestale, Falsi piani
lontani e Porpora e Giacinto.
Impressionano positivamente pure le
cadenze solistiche del sax (tutti perfette, davvero, ma con un apice in Bianca vestale) ed i giochi di contrasto
contrappuntistico tra violino e flauto (sempre Bianca vestale), violino e sax (Fonte
perenne e Falsi piani lontani)
nonché le trame cameristiche degli archi (Statue
di sale) e taluni divertissement barocchi come quelli di un bachiano flauto
dolce che piroetta tra l'aria dei Giardini
di pietra. La tavolozza di Perrino non esita nemmeno a ricorrere ad
artifici elettroacustici di indubbia seduzione (andate all'apertura di Principessa oscura o in prossimità dei
moti dissonanti di Mare di giada).
Meno convincente, invece, la costruzione delle linee melodiche in
corrispondenza delle parti cantate, poco in rilievo e dalla scrittura meno
fantasiosa (se paragonate al notevole impianto strumentale); un dettaglio,
questo, che evidenziai già in passato proprio ascoltando Principe di un giorno e che, pertanto, rientra nell'alveo di una coerente
scelta espressiva, tale da non essere tradotta come un difetto.
La musica prevale sulla parola (nonostante la ricerca e la ricercatezza testuale):
il fascino sonoro è talmente "solare", da porre in ombra le parti
cantate. Un canto semplice ma mai, comunque, semplicistico o frettoloso, figlio
di un approccio elementare (ovvero
che, con umiltà e, appunto, semplicità, ritorna agli "elementi"
dell'espressione canora). Gli esiti possono risultare discutibili, ma l'onesta
prospettiva estetica di partenza rimane valida.
Una parola sull'ensemble: Perrino ha scelto bene i suoi collaboratori,
muovendosi tra jazzisti e interpreti classici, ma non mancano camei prog come
quelli di Elisa Montaldo (Il Tempio delle Clessidre) e del tastierista Alfio
Costa (Daal e Prowlers).
Riccardo Storti
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