sabato 15 aprile 2017

KARMAKANIC - "DOT" (Inside Out Music, 2016)

Quando si tocca un disco prog, prima di tutto, ci vuole rispetto, perché "dietro" c'è una storia che merita di essere raccontata. Quindi una profusione di energie intellettuali non da poco. Poi, sul piano stilistico ed estetico, si possono muovere tutti i rilievi del caso, ma il punto di partenza non va mai svilito. Se nel 2017 c'è ancora chi canta di unicorni e fate, va benissimo. Vediamo - anzi - ascoltiamo come lo faccia.


Ogni tanto mi capita di imbattermi nel prog scandinavo. A fine 2016 gli svedesi Karmakanic hanno fatto uscire un album poderosissimo dal titolo piccolissimo, DOT. Un concept album su quel puntino sovrastimato chiamato "Terra". Ascoltando il background al making del disco, il leader Jonas Reingold (già The Flower Kings) dichiara di essersi ispirato ad un pensiero dell'astronomo Carl Segan e di avere riflettuto su quell'ultima immagine della Terra lanciata dal Voyager nel 1990, prima che la sonda sparisse. Un puntino nell'universo.
Qui c'è già tutto il materiale per un bel concept  dal sapore filosofico pascalian-leopardiano. Il niente nel tutto e la ginestra. Ma anche pascolian-leopardiano, l'atomo opaco del male. Ma non so proprio se il buon Reingold conosca le nostre patrie lettere (di sicuro avrà presente, però, il filosofo francese che scommetteva con Dio). Insomma, lasciando perdere varie elucubrazioni (che sono solo del recensore), la vera luce arriva dal disco che, non a caso, mollato il brevissimo prologo della title track, si lancia in una mega suite in due sezioni, poste severamente in entrata e in uscita (God The Universe and Everything Else No One Really Cares About - Part I e God The Universe and Everything Else No One Really Cares About - Part II). E qui l'analisi, pur nella brevità di questo spazio, si impone. (sarò breve... c'è da crederci?)
La prima parte (di quasi 24 minuti), dopo un prologo di basso, si apre come una song dalle mille sfaccettature con interludi che giocano prevalentemente su cambi di atmosfere dinamiche e armoniche. Un bell'assolo di pianoforte (4'10") consente una declinazione barocca del tessuto melodico pronunciato dalla chitarra (4'50") e ripetuto, quasi a canone, dagli altri strumenti. La frase si reitera ed evolve il tratteggio del panorama sonoro sconfinando in sfumature tra jazz, Canterbury e RIO. La ripresa del canto (6'36") si espande in giochi di luci cangianti che potrebbero ricordare sia gli Yes, sia i Pink Floyd, ma anche alcune cosette di entità più recenti (Porcupine Tree e RPWL). Qui scorgiamo il perno sinfonico della suite: guai a perderlo di vista.
Attenzione alla cellula motivica in 7/4 da 10'15" per moog e chitarra (all'unisono): lo sviluppo è interessante perché da lì si genera un indiavolato solo del sintetizzatore (degno di certe prodezze del Moraz di Relayer). Da 12'00" si ritorna ad una parziale quiete, ma senza distogliersi dal 7/4: un dialogo tra canto e coro, sempre più in crescendo inframmezzato da un episodio solistico dal carattere tastieristico assai deciso (13'34"). Reprise del tema barocco (15'41") da parte della chitarra elettrica, sostenuta da distorsioni e pesantezze varie, quasi il lato heavy di quella frase che avevamo ascoltato, così ingentilita, all'inizio della traccia. Anche qui i Karmakanic si superano in maestria nel modo in cui giustappongono i contrasti: dal piano al forte, dal "classico" all'hard, dalla consonanza alla dissonanza, dall'acustico all'elettrico; pressoché una ripetizione aggiornata della grammatica crimsoniana. Si dipana una marcia verso il finale cantato con afflato epico dall'inossidabile Göran Edman, sostenuto a dovere dal portato prog sinfonico di tutta la band trasformatasi in una vera e propria orchestra elettrogena.
God The Universe and Everything Else No One Really Cares About - Part II è un'appendice a quanto già ascoltato che si avvale, però, di un clima più contenuto, quasi intimo: segnali cameristici nell'incipit, un pianoforte per pochi e una voce adatta per una ballad quasi corale. In fondo, questa seconda parte non fa che riprendere ed ampliare il grappolo di note sprigionate dal prologo bassistico iniziale (a proposito, sentite che combina Jonas Reingold con il suo strumento da 2'41").
Tra gli altri brani, merita una menzione particolare Higher Ground, composizione dalla ricercata anima canora pop che, comunque, con i suoi oltre 10 minuti diletta l'ascoltatore grazie ad una scrittura molto flessibile, dal DNA assai articolato (colonna sonora, art rock, AOR, folk, jazz rock e esay listening) con reminiscenze interne di temi riconducibili alla suite. Non poteva essere altrimenti (iniziano come gli Aztec Camera e finiscono come gli Yes).
Chiudono il cerchio la gradevole e orecchiabile ballata Steer by Stars (molto americana) e l'ariosità genesisiana di Traveling Minds (arricchito dall'ennesimo suggestivo solo introduttivo di Reingold).

© Riccardo Storti


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