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Aspettando Is This the Life We Really
Want?di Roger Waters...
Quanto è che non fa uscire un disco? 25 anni? Un quarto di secolo, mica due
giorni. ma, sotto sotto, gli fa onore, perché non te lo ordina mica il medico
di uscire ogni anno con un disco. Sempre che tu non sia Zappa (ma, in quel
caso, non c'è medico che tenga).
L'attesa si direbbe trepidante; oddio, l'aggettivo in questione sa di fan e
va bene. Superata l'ansiosa attesa da pubblicazione, subentra la curiosità. Roger Waters, dal
canto suo, però, ha già cominciato a solleticare e sollecitare gli indiscreti
desideri sonori dei suoi aficionado, regalando, nell'arco di poco tempo, ben 3
singoli, capaci di trasmettere il profumo di quanto uscirà il 2 giugno 2017.
Il 20 aprile edita Smell the Roses,
caracollante traccia rock dotata della giusta indolenza ritmico-armonica di
taluni episodi di Animals e Wish You Were Here. La voce è quella
giusta, la trazione lirica, scatenata dall'interazione tra testo e
interpretazione canora, rimanda alla stagione giusta: qualche momento di tesa
sospensione tra tastiere vintage e bicordi distorti e ci siamo. Il sound è
quello. Sarebbe bastato un solo alla (anzi "di") Gilmour e avremmo
urlato ai Pink Floyd senza esitazione.
La seconda cartuccia viene sparata l'8 maggio con Déjà Vu (in realtà, brano non proprio così inedito visto che Waters
la suonò dal vivo al Parlamento Europeo nel 2014 con un titolo diverso, Lay Down Jerusalem (If I Had Been God)).
È Waters compositore di canzoni per chitarra acustica e pianoforte, che, però,
si misura anche con i timbri morbidi di un'orchestra d'archi dai riflessi emozionali
contagiosi. Sotto la patina del silenzio discografico ultraventennale s'intravede
nitido lo smalto del songwriter ispirato, vicino ai passaggi narrativi e
musicali (meno diretti) di The Final Cut.
È del 19 maggio l'uscita del terzo singolo The Last Refugee con tanto di corredo video promozionale. Anche lì:
si fa presto a dire "clip", questo è uno "short"
(praticamente un cortometraggio musicale) a firma di Waters e del regista Sean
Evans (regista del film-evento The Wall
del 2014).
Il pezzo prende: successioni di accordi perentori floydiani (e diremmo
anche perentoriamente floydiani) alla base di voci radiofoniche che preparano
l'entrata del nostro, preparato per una prova vocale che non ha paragoni con le
altre due canzoni. Tutto appare ordinato e semplice: la batteria si fa battito
cardiaco di un organismo mosso, qua e là, da poche sincopi rullate; gli altri
strumenti (pochi: un pianoforte, un basso e una chitarra) scandiscono precisi
le battute consentendo a Waters di raccontare la storia drammatica dell' ultimo profugo. Come sempre, attuale e civile.
Forse il profugo è donna, come illustra il toccante video?
Insomma l'assaggio ha innescato l'acquolina in bocca: per quel poco che si
è ascoltato, lo spessore non manca, così come l'onestà intellettuale di chi ha,
comunque, qualcosa da dire e cantare.
© Riccardo Storti
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