domenica 14 maggio 2017

MARILLION - "F*** Everyone and Run (F E A R)" (EarMusic, 2016)

Si rischia sempre di scrivere delle banalità, ogniqualvolta ci si avvicina ai Marillion. Da tempo immemorabile, a dire il vero. Vi ricordate, no, quando mossero i primi passi? E giù "cloni dei Genesis". In parte vero, per chi si fermava al suono e non cercava di comprendere meglio la forte personalità di Fish. Poi Fish se ne andò e via con i funerali estetici perché, sotto sotto, sembravano sempre meno i Genesis. E quello Steve Hogarth che faceva storcere il naso a chi, dalla superficie, faticava ad inforcare le cuffiette?
L'ultima fatica, uscita nel 2016, alla fine, mi ha particolarmente attratto, forse perché i nostri, ormai, sono un gruppo scafato, con una loro autonomia stilistica ben precisa e netta, sorretta da un'esperienza "tradizionale" che non ammette dubbi. Hogarth e i suoi sanno benissimo che il punto di forza si chiama melodia e, dove quest'ultima è curata con dovizia di particolari (pure emotivi), il brano regge, cresce e resta.
Fear (F*** Everyone And Run), uscito per la tedesca EarMusic (sottoetichetta della tedesca Edel), è un'opera complessa (anche sul piano narrativo) costituita da tre brani a suite (tra i 16 e i 19 minuti l'uno), due canzoni espanse e un breve epilogo (Tomorrow's New Country). Strutturalmente si tratta di un album progressive a tutto tondo, la cui anima creativa collima alla perfezione con i dettami di quella tradizione. Eppure, come spesso capita nei lavori dei Marillion, il trait d'union che lega e ordina la massa sonora va ricercato nell'elemento unificatore di una forma canzone libera, aperta ad itinerari melodico-armonico di ampio respiro.
Sul piano delle reference stilistiche, i Marillion variano l'ordito e lo si evince soprattutto dalle 3 suite. Nella prima (Eldorado) si avverte quanto il gruppo britannico abbia acquisito e fatte proprie (con padronanza) sonorità appartenenti ad esperienze musicali più vicine al presente (sebbene non proprio recentissime). Prendiamo ad esempio il secondo movimento (The Gold): si ammanta subito di ombreggiature darkeggianti alla Sigur Ros ma si sviluppa come una canzone dei Porcupine Tree più floydiani; invece, nel terzo movimento (F.E.A.R.), si destreggiano nell'ABC plumbeo dei Radiohead, così come il lirismo canoro dell'ultima parte (The Grandchildren of Apes) ricorda quello di Thom Yorke.
The Leavers, invece, si accosta molto di più allo stile tipico dei Marillion, quello maggiormente connesso ad un sinfonismo progressive di ampio respiro lirico; in particolare Vapour Trails In The Sky (terza sezione della long track) sembra ricollegarsi a certe trovate del periodo Fish, nel gioco di aperture e chiusure timbriche (con un neo: ma perché Rothary sbiadisce la sua chitarra con un chorus così poco propizio?); in un certo senso The Jumble of the Days si ricollega alle atmosfere di Misplaced Childhood e Clutching at Straws, grazie anche ad un solo di chitarra "come ai vecchi tempi"; idem dicasi nel finale epico di One Tonight.
Più debole per eterogeneità, l'ultima macrocomposizione, The New Kings, le cui singole tracce rischiano di dovere trovare a tutti i costi un collegamento tra loro, quando l'impressione è quella di quattro canzoni dal carattere musicale piuttosto autonomo.
Delle tre suite, Eldorado è sicuramente quella che s'imprime subito nell'orecchio dell'ascoltatore, proprio per il calcolato bilanciamento tra forma canzone e variabilità dinamico-strumentale.  Non male il resto della tracklist: Living in F.E.A.R. mostra tutti i numeri per il "singolo" dal buon effetto pop e White Paper mette in evidenza efficace scrittura e pregevole imprinting canoro.

© Riccardo Storti


Il video di Living in FEAR

 


 Ascolta l'album su Spotify

 

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