Si rischia sempre di scrivere delle banalità, ogniqualvolta ci si avvicina
ai Marillion. Da tempo immemorabile, a dire il vero. Vi ricordate, no, quando
mossero i primi passi? E giù "cloni dei Genesis". In parte vero, per chi si fermava al suono e non
cercava di comprendere meglio la forte personalità di Fish. Poi Fish se ne andò
e via con i funerali estetici perché, sotto sotto, sembravano sempre meno i
Genesis. E quello Steve Hogarth che faceva storcere il naso a chi, dalla
superficie, faticava ad inforcare le cuffiette?
L'ultima fatica, uscita nel 2016, alla fine, mi ha particolarmente
attratto, forse perché i nostri, ormai, sono un gruppo scafato, con una loro
autonomia stilistica ben precisa e netta, sorretta da un'esperienza
"tradizionale" che non ammette dubbi. Hogarth e i suoi sanno
benissimo che il punto di forza si chiama melodia e, dove quest'ultima è curata
con dovizia di particolari (pure emotivi),
il brano regge, cresce e resta.
Fear
(F*** Everyone And Run),
uscito per la tedesca EarMusic (sottoetichetta della tedesca Edel), è un'opera
complessa (anche sul piano narrativo) costituita da tre brani a suite (tra i 16
e i 19 minuti l'uno), due canzoni espanse e un breve epilogo (Tomorrow's New Country). Strutturalmente
si tratta di un album progressive a tutto tondo, la cui anima creativa collima
alla perfezione con i dettami di quella tradizione. Eppure, come spesso capita
nei lavori dei Marillion, il trait d'union che lega e ordina la massa sonora va
ricercato nell'elemento unificatore di una forma canzone libera, aperta ad
itinerari melodico-armonico di ampio respiro.
Sul piano delle reference stilistiche, i Marillion variano l'ordito e lo si
evince soprattutto dalle 3 suite. Nella prima (Eldorado) si avverte quanto il gruppo britannico abbia acquisito e
fatte proprie (con padronanza) sonorità appartenenti ad esperienze musicali più
vicine al presente (sebbene non proprio recentissime). Prendiamo ad esempio il
secondo movimento (The Gold): si ammanta
subito di ombreggiature darkeggianti alla Sigur
Ros ma si sviluppa come una canzone dei Porcupine Tree più floydiani; invece, nel terzo movimento (F.E.A.R.), si destreggiano nell'ABC
plumbeo dei Radiohead, così come il
lirismo canoro dell'ultima parte (The
Grandchildren of Apes) ricorda quello di Thom Yorke.
The Leavers, invece, si accosta molto di più allo stile
tipico dei Marillion, quello maggiormente connesso ad un sinfonismo progressive
di ampio respiro lirico; in particolare Vapour
Trails In The Sky (terza sezione della long track) sembra ricollegarsi a
certe trovate del periodo Fish, nel gioco di aperture e chiusure timbriche (con
un neo: ma perché Rothary sbiadisce la sua chitarra con un chorus così poco
propizio?); in un certo senso The Jumble
of the Days si ricollega alle atmosfere di Misplaced Childhood e Clutching
at Straws, grazie anche ad un solo di chitarra "come ai vecchi
tempi"; idem dicasi nel finale epico di One Tonight.
Più debole per eterogeneità, l'ultima macrocomposizione, The New Kings, le cui singole tracce
rischiano di dovere trovare a tutti i costi un collegamento tra loro, quando
l'impressione è quella di quattro canzoni dal carattere musicale piuttosto
autonomo.
Delle tre suite, Eldorado è
sicuramente quella che s'imprime subito nell'orecchio dell'ascoltatore, proprio
per il calcolato bilanciamento tra forma canzone e variabilità
dinamico-strumentale. Non male il resto
della tracklist: Living in F.E.A.R.
mostra tutti i numeri per il "singolo" dal buon effetto pop e White Paper mette in evidenza efficace
scrittura e pregevole imprinting canoro.
© Riccardo Storti
Ascolta l'album su Spotify
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