sabato 24 giugno 2017

ISILDURS BANE & STEVE HOGARTH - "Colours Not Found in Nature" (Ataraxia, 2017)

Colpito dal binomio, non ho resistito alla curiosità di capire cosa ci fosse sotto, una volta piazzato il CD nel mio lettore audio. Da un lato una delle più accreditate progband del panorama scandinavo, gli svedesi Isildurs Bane; dall’altro Steve Hogarth, la voce dei Marillion. Chi mi legge da oltre un mesetto, si sarà accorto che sto attraversando un percorso di ascolti ad effetto domino. Un po’ di tempo fa vi ho parlato di F.E.A.R. dei Marillion, qualche settimana ho esaminato Incommunicado. Giro da quelle parti.
E aggiungo (proprio perché siamo qui tra amici) che ho voluto anche toccare con mano come Hogarth si comporti in altri compagini. L’ho già scritto: trovo la sua voce molto piacevole grazie ad una calibrazione interpretativa e melodica a suo modo abbastanza originale nel circuito progressive, forse perché potrebbe funzionare bene anche in ambito pop. E ciò non è una debolezza. Si dice che con i Marillion il suo tocco si riveli troppo persistente, se non a tratti addirittura invadente; e anche questa è una (parte della) verità.
Qui, il nostro è diretto da un gruppo che ha composto musica e testi ma che si è avvalso della presenza prestigiosa di un singer che non ha solo recitato (bene) la parte, ma avrà sicuramente contribuito al progetto con indicazioni personali.
È divertente assistere alla maniera in cui un ensemble dalla doppia anima (rock e contemporary e, al tempo stesso, elettrica e acustica) mette a disposizione i propri frutti musicali al vocalist: ce ne accorgiamo subito dall’opener Ice Pop in cui una sostenuta base in 5/4 viene liberamente sovvertita da cambi di tempi e stacchi di rottura per poi convertirsi in tutt’altro (mi riferisco all’evanescente coda finale da 4’54” in poi). L’ugola di Hogarth dà forma alla melodia ma, al tempo stesso, si conforma alle direttive armoniche pattuite sul limitare dello spartito. Un’osmosi brillante che diverrà, di fatto, il piatto forte del disco (se non addirittura la ragion d’essere dello stesso).
Addirittura in The Random Fires, Hogarth è uno “strumento” come gli altri e si fa solubile nel liquido spettro timbrico della composizione, strutturata su due blocchi che si alternano: uno staccato massivo figlio di Dinosaur dei King Crimson e un coro che canta un ritornello (Hogarth copiato e incollato più volte). In mezzo diverse aperture solistiche (talvolta all’unisono) di violino, chitarra elettrica e vibrafono su scale accidentate e con qualche criptocitazione zappiana (andate a 2’20”e a 3’40”: mi pare di avere sentito la citazione di The Black Page).
Più spazio, invece, tra le righe di Peripheral Vision: Hogarth canta con delicatezza una ballata sullo sfondo strumentale di un trio cameristico (violino, violoncello e pianoforte); nello sviluppo strumentale (4’13”) si inserisce anche la batteria e la chitarra elettrica che con le tastiere contribuiscono ad un’evoluzione sinfonica della traccia. La conclusione viene ceduta alla reprise del cantato che si spegne abbandonandosi alle ultime note di un onirico glockenspiel.
Con The Love and the Affair, invece, l’unione tra le due entità acustiche apre affidarsi alla tradizione, se non altro nell’elaborazione stilistica di taluni stabili moduli: qui atmosfere floydiane si trovano al crocevia con gesti modulanti crimsoniani e ricordi genesisiani; ma c’è spazio anche per una cesura (4’07”) che potrebbe ricordare i Jethro Tull di Thick As a Brick. Sul finale, l’ingresso della tromba di Luca Calabrese muta la luce generale del brano.
Diamonds and Amnesia ci ricollega all’anima acustica degli Isildurs Bane: si tratta di una canzone particolarissima in cui Hogarth, inizialmente, assume il ruolo, quasi ottocentesco, di cantore di Lied, sostenuto qua e là da aiuto periferico (quello di John Anderberg); battuta dopo battuta, però, necessità interpretative spostano l’esecuzione dal canto alla declamazione, quasi a volere inspessire la qualità lirica del testo.
Si chiude con Incandescent, pagina dominata da un’esposizione di linee metriche e melodiche piuttosto ossessive, ma capace di aprirsi ad episodi strumentali dal sapore orchestrale, dove lo stesso Hogarth riesce ad adattarsi con uno spirito metamorfico non da poco.
© Riccardo Storti 

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