Colpito dal binomio, non ho
resistito alla curiosità di capire cosa ci fosse sotto, una volta piazzato il
CD nel mio lettore audio. Da un lato una delle più accreditate progband del
panorama scandinavo, gli svedesi Isildurs Bane; dall’altro Steve Hogarth, la
voce dei Marillion. Chi mi legge da oltre un mesetto, si sarà accorto che sto
attraversando un percorso di ascolti ad effetto domino. Un po’ di tempo fa vi
ho parlato di F.E.A.R. dei Marillion,
qualche settimana ho esaminato Incommunicado.
Giro da quelle parti.
E aggiungo (proprio perché siamo qui
tra amici) che ho voluto anche toccare con mano come Hogarth si comporti in
altri compagini. L’ho già scritto: trovo la sua voce molto piacevole grazie ad
una calibrazione interpretativa e melodica a suo modo abbastanza originale nel
circuito progressive, forse perché potrebbe funzionare bene anche in ambito
pop. E ciò non è una debolezza. Si dice che con i Marillion il suo tocco si
riveli troppo persistente, se non a tratti addirittura invadente; e anche questa
è una (parte della) verità.
Qui, il nostro è diretto da un
gruppo che ha composto musica e testi ma che si è avvalso della presenza
prestigiosa di un singer che non ha solo recitato (bene) la parte, ma avrà sicuramente
contribuito al progetto con indicazioni personali.
È divertente assistere alla maniera in cui un
ensemble dalla doppia anima (rock e contemporary
e, al tempo stesso, elettrica e acustica) mette a disposizione i propri frutti
musicali al vocalist: ce ne accorgiamo subito dall’opener Ice Pop in cui una sostenuta base in 5/4 viene liberamente
sovvertita da cambi di tempi e stacchi di rottura per poi convertirsi in
tutt’altro (mi riferisco all’evanescente coda finale da 4’54” in poi). L’ugola
di Hogarth dà forma alla melodia ma, al tempo stesso, si conforma alle
direttive armoniche pattuite sul limitare dello spartito. Un’osmosi brillante
che diverrà, di fatto, il piatto forte del disco (se non addirittura la ragion
d’essere dello stesso).
Addirittura in The Random Fires, Hogarth è uno
“strumento” come gli altri e si fa solubile nel liquido spettro timbrico della
composizione, strutturata su due blocchi che si alternano: uno staccato massivo
figlio di Dinosaur dei King Crimson e
un coro che canta un ritornello (Hogarth copiato e incollato più volte). In
mezzo diverse aperture solistiche (talvolta all’unisono) di violino, chitarra
elettrica e vibrafono su scale accidentate e con qualche criptocitazione
zappiana (andate a 2’20”e a 3’40”: mi pare di avere sentito la citazione di The Black Page).
Più spazio, invece, tra le righe
di Peripheral Vision: Hogarth canta
con delicatezza una ballata sullo sfondo strumentale di un trio cameristico
(violino, violoncello e pianoforte); nello sviluppo strumentale (4’13”) si
inserisce anche la batteria e la chitarra elettrica che con le tastiere
contribuiscono ad un’evoluzione sinfonica
della traccia. La conclusione viene ceduta alla reprise del cantato che si
spegne abbandonandosi alle ultime note di un onirico glockenspiel.
Con The Love and the Affair, invece, l’unione tra le due entità
acustiche apre affidarsi alla tradizione, se non altro nell’elaborazione stilistica
di taluni stabili moduli: qui atmosfere floydiane si trovano al crocevia con
gesti modulanti crimsoniani e ricordi genesisiani; ma c’è spazio anche per una cesura
(4’07”) che potrebbe ricordare i Jethro Tull di Thick As a Brick. Sul finale, l’ingresso della tromba di Luca
Calabrese muta la luce generale del brano.
Diamonds and Amnesia ci ricollega all’anima acustica degli Isildurs
Bane: si tratta di una canzone particolarissima in cui Hogarth, inizialmente,
assume il ruolo, quasi ottocentesco, di cantore di Lied, sostenuto qua e là da aiuto periferico (quello di John
Anderberg); battuta dopo battuta, però, necessità interpretative spostano
l’esecuzione dal canto alla declamazione, quasi a volere inspessire la qualità
lirica del testo.
Si chiude con Incandescent, pagina dominata da
un’esposizione di linee metriche e melodiche piuttosto ossessive, ma capace di
aprirsi ad episodi strumentali dal sapore orchestrale, dove lo stesso Hogarth
riesce ad adattarsi con uno spirito metamorfico non da poco.
© Riccardo Storti
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