Freschezza. Ne abbiamo bisogno
soprattutto a fronte di una certa afa produttiva circoscrivibile, talvolta,
anche in ambiti discografici “indipendenti”.
Si possono trovare delle ricette,
ma se non c’è il “manico” buono, puoi scartabellare all’infinito stili e
stilemi da Elvis a oggi senza cavarne il ragno dal buco.
Poi ti imbatti in fenomeni sempre
“freschi” come i norvegesi Arabs In Aspic (fiore all’occhiello
della genovese Black Widow Records) e ti
viene voglia di sperare. Non è la prima volta: li seguii all’esordio Strange Frame of Mind e mi colpirono
proprio per la naturalezza espositiva del loro talento vintage. Sì, perché
anche per il vintage ci vuole talento, non ci si può improvvisare, se no anche
il più raffinato reperto d’antiquariato diventa paccottiglia kitsch.
Questo non è il caso degli Arabs
In Aspic che, nel loro penultimo lavoro del 2013 Pictures in a Dream, hanno saputo realizzare una vera e propria
sintesi della vis compositiva tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta,
avvalendosi soprattutto di marcatori contrastanti nell’intero arco melodico,
armonico e ritmico.
In primis predilezione per la
forma canzone espansa, quella che presagiva il prog, quando il prog ancora non
esisteva. La tavolozza dei colori scala dalle atmosfere dilatate psichedeliche alle asperità riffeggianti di un sound
più corposo, riferibile a quell’hard rock che non ha mai misconosciuto le radici
del blues (l’attacco di Let Us Pray,
la cadenza chitarristica slow di Felix,
alcune mosse crimsoniane di Vi møtes
sikkert igjen).
Punto di riferimento del disco è
il dittico Rejected Wasteland / Pictures in a Dream posto in apertura:
il primo brano cresce sui due accordi di Light
My Fire, ma è una cavalcata terzinata che porta al clima da ballad alla
Uriah Heep della title track. Altri momenti di rilievo: You Are Blind (tra Black Sabbath e rumorismo lisergico), Hard to Find e Lifeguard@Sharkbay
(il motore dei Deep Purple guida inaspettate aperture tastieristiche quasi
space nella prima e chitarristiche nella seconda), Difference in Time (quando i Grand Funk Railroad mettevano il
distorsore su ritmiche funky) e Prevail
to Fail (ballad dalle suggestive declinazioni corali che trovano una
naturale prosecuzione nella versione acustica della title track).
Qua e là mi pare di avere colto
delle allusioni citazionali non so fino a che punto volute (ma il mio dubbio è
segno che i nostri siano abilissimi anche in questo gioco): il tema all’unisono
di organo e chitarra di Ta et steg til
siden ricorda quello di Gimme Some
Lovin’ degli Spencer Davis Group; il lancio di batteria nell’incipit di Vi møtes sikkert igjen è
quello di Peaches in Regalia di Frank
Zappa.
Insomma, Pictures in a Dream è un album che sa pure intrattenere un pubblico
non necessariamente di nicchia e questa è una qualità primaria per ciò che
chiamiamo “buona musica”. Il resto appassiona, prende, accompagna con garbo nel
vortice del “già sentito”, senza creare gare tra cacciatori di segnali derivativi.
Ora non mi resta che passare
all’ultimo Victim of Your Father’s Agony…
(Riccardo Storti)
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