Lo ammetto senza riserva: ogni
volta che entra in sala d’incisione, mi stupisce. Ormai seguo il percorso di Dewa Budjana da un po’ di anni e la
curiosità è sempre al top, perché questo grande chitarrista indonesiano, non
solo è un prodigo artefice di ottima musica, ma riesce altresì ad accompagnare
le sue produzioni con la presenza di interpreti importanti della scena mondiale.
Chiamarli sessionman è limitativo, visto che, talvolta, gli esecutori
collaborano in maniera fattiva agli arrangiamenti dei brani composti da
Budjana. Nell’ultimo Zentuary
chiama due batteristi (Jack De Johnette
e Gary Husband) e lo stickman per
eccellenza Tony Levin (qui però al
contrabbasso elettrico), oltre ad una serie di colleghi variamente estratti dal
mondo della fusion.
Bastano i primi 3 nomi ad
assicurarci che il lavoro presentato sia all’altezza (qualitativa) della
premessa. Jack De Johnette ha suonato in Bitches
Brew di Miles Davis (tanto per dirne una) e ha collaborato con Keith
Jarrett, Chick Corea, Joe Zawinul, McCoy Tyner, Micheal Brecker, Carlos
Santana; gli appassionati del funky anni Ottanta legheranno il nome di Gary
Husband ai Level 42, ma costui resta tuttora uno dei drummer più richiesti
sulla faccia della Terra (piccola lista di committenti tratti dal suo
curriculum: Quincy Jones, Tomasz Stanko, Al Jarreau, Mike and the Mechanics,
Andy Summers, Soft Legacy, UK, Spandau Ballet, John McLaughlin, Allan
Holdsworth). La novità? Entrambi i batteristi, nel disco di Budjana, si
cimentano pure alle tastiere: sono tutte di un abilissimo Husband, mentre De
Johnette si offre al pianoforte solo per una traccia (Uncle Jack). Poi c’è Tony Levin, notissimo in ambito prog per le
joint-venture con i King Crimson e Peter Gabriel.
In aggiunta segnaliamo Guthrie Govan, Tim Garland, Danny Markovich,
Saat Syah, Ubiet e Risa Saraswati,
oltre ad un importante cameo della prestigiosa Orchestra Sinfonica Ceca diretta da Michaela Růžičková.
Come altre opere di Budjana, Zentuary colpisce per densità ed
ecclettismo. 12 tracce strumentali (alcune delle quali ben oltre i 10 minuti)
in cui gli ingredienti classici del jazz rock si mischiano con melodie e
timbriche del Sud Est asiatico. Tanto per intenderci, siamo di fronte ad un
triplo vinile (o doppio CD che dir si voglia), segno di una prolificità
produttiva dai contorni monumentali. Ampie dilatazioni armoniche fanno
oscillare il pendolo stilistico tra il prog e la fusion, ma sempre all’interno
di una grammatica jazzistica aperta all’improvvisazione e all’interplay tra i
componenti.
Budjana spazia tra i mood della
sua terra (Dancing Tears, Lake Takengon, Dedariku, la melodia sincretistica del tema di Manhattan Temple, Ujung
Galung), ma non esita a misurarsi con scritture di genere caratterizzate da
tempi irregolari (Solas PM, Dear Yulman, Pancaroba), reminescenze free (l’incipit di Uncle Jack), richiami ai classici della fusion (Mahavishnu Orchestra per Dancing Tears e The Return to Forever in Pancaroba)
e al progressive (il solo floydiano del chitarrista Guthrie Govan in Suniakala) nonché rilassanti paesaggi
acustici sostenuti dall’orchestra (la title track). Bene si incastra,
nell’atmosfera complessiva del lavoro, Crack in the Sky, l’unico brano non
firmato da Budjana, ma scritto da 2/3 degli Stickmen, ovvero Tony Levin e il
tedesco Markus Reuter.
Zentuary va assaporato, goccia dopo goccia, se no si rischia di
fare indigestione: c’è tanto, forse troppo, ma era inevitabile che fosse così.
Sarebbe stato un peccato lasciare fuori note e ritmi da un simile incontro,
quindi vale proprio la pena intraprendere il viaggio sonoro e portarsi dietro
le provviste “critiche” per il lungo itinerario.
Riccardo Storti
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