domenica 1 ottobre 2017

DEWA BUDJANA – “Zentuary” (MoonJune Music & Gitarku Museum, 2016)



Lo ammetto senza riserva: ogni volta che entra in sala d’incisione, mi stupisce. Ormai seguo il percorso di Dewa Budjana da un po’ di anni e la curiosità è sempre al top, perché questo grande chitarrista indonesiano, non solo è un prodigo artefice di ottima musica, ma riesce altresì ad accompagnare le sue produzioni con la presenza di interpreti importanti della scena mondiale. Chiamarli sessionman è limitativo, visto che, talvolta, gli esecutori collaborano in maniera fattiva agli arrangiamenti dei brani composti da Budjana. Nell’ultimo Zentuary chiama due batteristi (Jack De Johnette e Gary Husband) e lo stickman per eccellenza Tony Levin (qui però al contrabbasso elettrico), oltre ad una serie di colleghi variamente estratti dal mondo della fusion.
Bastano i primi 3 nomi ad assicurarci che il lavoro presentato sia all’altezza (qualitativa) della premessa. Jack De Johnette ha suonato in Bitches Brew di Miles Davis (tanto per dirne una) e ha collaborato con Keith Jarrett, Chick Corea, Joe Zawinul, McCoy Tyner, Micheal Brecker, Carlos Santana; gli appassionati del funky anni Ottanta legheranno il nome di Gary Husband ai Level 42, ma costui resta tuttora uno dei drummer più richiesti sulla faccia della Terra (piccola lista di committenti tratti dal suo curriculum: Quincy Jones, Tomasz Stanko, Al Jarreau, Mike and the Mechanics, Andy Summers, Soft Legacy, UK, Spandau Ballet, John McLaughlin, Allan Holdsworth). La novità? Entrambi i batteristi, nel disco di Budjana, si cimentano pure alle tastiere: sono tutte di un abilissimo Husband, mentre De Johnette si offre al pianoforte solo per una traccia (Uncle Jack). Poi c’è Tony Levin, notissimo in ambito prog per le joint-venture con i King Crimson e Peter Gabriel.
In aggiunta segnaliamo Guthrie Govan, Tim Garland, Danny Markovich, Saat Syah, Ubiet e Risa Saraswati, oltre ad un importante cameo della prestigiosa Orchestra Sinfonica Ceca diretta da Michaela Růžičková.
Come altre opere di Budjana, Zentuary colpisce per densità ed ecclettismo. 12 tracce strumentali (alcune delle quali ben oltre i 10 minuti) in cui gli ingredienti classici del jazz rock si mischiano con melodie e timbriche del Sud Est asiatico. Tanto per intenderci, siamo di fronte ad un triplo vinile (o doppio CD che dir si voglia), segno di una prolificità produttiva dai contorni monumentali. Ampie dilatazioni armoniche fanno oscillare il pendolo stilistico tra il prog e la fusion, ma sempre all’interno di una grammatica jazzistica aperta all’improvvisazione e all’interplay tra i componenti.
Budjana spazia tra i mood della sua terra (Dancing Tears, Lake Takengon, Dedariku, la melodia sincretistica del tema di Manhattan Temple, Ujung Galung), ma non esita a misurarsi con scritture di genere caratterizzate da tempi irregolari (Solas PM, Dear Yulman, Pancaroba), reminescenze free (l’incipit di Uncle Jack), richiami ai classici della fusion (Mahavishnu Orchestra per Dancing Tears e The Return to Forever in Pancaroba) e al progressive (il solo floydiano del chitarrista Guthrie Govan in Suniakala) nonché rilassanti paesaggi acustici sostenuti dall’orchestra (la title track). Bene si incastra, nell’atmosfera complessiva del lavoro,  Crack in the Sky, l’unico brano non firmato da Budjana, ma scritto da 2/3 degli Stickmen, ovvero Tony Levin e il tedesco Markus Reuter.
Zentuary va assaporato, goccia dopo goccia, se no si rischia di fare indigestione: c’è tanto, forse troppo, ma era inevitabile che fosse così. Sarebbe stato un peccato lasciare fuori note e ritmi da un simile incontro, quindi vale proprio la pena intraprendere il viaggio sonoro e portarsi dietro le provviste “critiche” per il lungo itinerario.
Riccardo Storti       

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