domenica 3 dicembre 2017

DUSAN JEVTOVIC – “No Answer” (Moonjune, 2017)



Un pianoforte apre il gioco con una sequenza ripetitiva e ossessiva in 7/8 a cui fa da contorno un tappeto distorto di bicordi elettrici, sommati ad un tenue crescendo percussivo. Altro che il solito disco di fusion: qui si parte da una strana terra di confine tra minimalismo e postrock.
Si presenta così la prima traccia (Al Aire/Soko Bira) del nuovo lavoro del chitarrista serbo Dusan Jevtovic che, per questa recente uscita, si è avvalso di due adeguati compagni di strada. Alle tastiere il serbo Vasil Hadzimanov (recensii circa un anno fa il suo ottimo Alive) e alla batteria l’israeliano Asaf Sarkis (curriculum partecipativo da paura, citiamo solo Mauro Pagani e la Soft Machine Legacy).
Dato un occhio alla line-up, ci si rende subito conto che manchi un bassista. Si tratta di una scelta che definisce la meglio le possibili ricadute interpretative dei brani attraverso un preciso interplay tra i musicisti con esiti coloristici particolari. Le parti di basso, quando necessarie a solidificare l’impianto ritmico, sono affidate al Moog di Hadzimanov; in altri casi, pur nel range specificatamente jazzistico, il resto è affidato ad un gioco di atmosfere che, pur essendo fissate intorno all’input melodico della chitarra, si dipanano attraverso perturbazioni sonore offerte dall’effettistica, dal contributo anche idiofono di Sirkis e dalla vivacità contrappuntistica e improvvisativa del pianoforte (acustico o elettrico) di Hadzimanov (da non perdere la coda di Yo Sin Min. il solo quasi atonale di El Oro e i passaggi vintage al Fender Rhodes in Frusci, A Ver, Lifetime).
Altra caratteristica: il disco è stato registrato in presa diretta, pertanto non vi sono sovraincisioni. Un live in studio che, alla fine, è valorizzato proprio dal fatto che quanto si ascolta è frutto di un’intercettazione creativa irripetibile, almeno per quei dettagli interpretativi che, per fortuna, sfuggono alla programmazione esecutiva di base.  
No Answer è un CD camaleontico, capace di mostrare, brano dopo brano, percorsi stilistici assai diversi tra loro. Scorrendo la playlist, si finisce per entrare in tunnel di continui richiami: il chitarrismo metamorfico di Jevtovic dà gran prova di sé in Frusci, veleggiando da McLaughlin, Stern ed Hendrix;  Yo Sin Mi si avvale dell’insegnamento di Metheny ma in una suggestiva aura musicale non scevra di legami ambient; in A Ver il noise si confronta con gli umori elettrici del Davis di Bitches Brew; Lifetime ha il passo dello strumentale British Blues fine anni Sessanta macchiato da dissonanze anarchiche; in Prayer la chitarra imita melismi orientali di fattura arabeggiante ma è sostenuta da un dettato pianistico tra Bartók e Bill Evans; le note di El Oro sono una combinazione tra be-bop, contrasti crimsoniani e folk balcanico; una stranissima fusion – a tratti - darkeggiante si trova a flirtare con stimoli provenienti dalla musica contemporanea in The Place with a View.
Si può dir tutto (ad averne proprio voglia), ma non ci si annoia affatto, anzi… (Riccardo Storti)

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