Combina il mellotron con la Rickenbaker e ne sentirai delle belle.
Esperimenti neopsichedelici programmabili solo "ex post", quando, a
cinquant'anni di distanza, in pieno dopo Storia (del rock) (non scrivo "postrock",
se no, potrei essere frainteso), ci si può permettere una giocosa
rielaborazione neoclassica . Ma quante categorie estetiche mi tocca scomodare
per raccontare un bel disco di canzoni dai colori caleidoscopici?
È quanto accade nell'esordio a 33 giri di questo trio della scena
underground di Washington, in realtà frutto della mente del polistrumentista
Dan McNabb, nato chitarrista e presto coinvolto/sconvolto tra i rami analogici
di un sound vintage d'altri tempi. Appunto, la chitarra dei Byrds e il
mellotron usato ancora senza l'intenzione sinfonica del prog, ma semplicemente
come un riempitivo armonico dalle velleità orchestrali. Ma la tavolozza va ben
oltre: cori riverberati, nastri al contrario, corde sitarreggianti, panneggi di phaser ed una batteria
"pestasodo" distillata dal punk. E, se non fosse proprio per i
pattern ritmici, questo Don't Lose Your
Mind potrebbe essere uscito benissimo nel 1967 e dintorni.
La title track (che fa anche da opener) si avvale di un convincente riff
con tanto di allure sonico alla Animals; con Unity, invece, siamo dalle parti degli Spirit, mentre I've Seen the Stars è una ballad in cui
il mellotron contrasta con drammaticità alcune sospensioni dissonanti
corroborate da sontuose scale discendenti sui bassi very Sixties. In The Next One fa pure capolino un timido
cembalo tra rutilanti narrazioni ritmiche floydiane da trip senza ritorno;
coordinate californiane sbarazzine e garage nutrono il filone beat di song
minori come I Want Truth o I am Done (ma occhio al solo di chitarra
e al finale rumoristico degno degli Who). Diverso lo spessore della lennoniana Out of Tune, una sorta di I'm Losing You retrodatata e nobilitata
da uno staccato beatlesiano che sposta la nostra memoria verso altri episodi
dei Fab Four: bella l'atmosfera generale, il basso dal passo à la Rickenbaker,
la voce profonda di McNabb; forse, per completare l'opera, non sarebbe stato
male un bridge più ficcante. Per Nothing
Wrong il ductus arpeggiato rimanda ai Byrds di I'll Follow a Whole Lot Better (bello l'assolo finale in pieno
stile McGuinn), invece le dilatazioni di Days
of Joy lasciano riemergere genuine radici di una sana psichedelia
artigianale tra le nostre Orme di Ad
Gloriam e i britannici Syn (ma, anche qui, il timbro vocale di McNabb non
nasconde una felice patina simile a quella del già citato Lennon).
Finale raga-rock con le dilatazioni di No
Expections: spezie indiane trafugate da scrigni lasciati chiusi nella stiva
di qualche velivolo lisergico a zonzo da Liverpool a Bombay via San Francisco.
La linea armonica monocorde del canto è un chiaro riferimento alla lezione di Tomorrow Never Knows ma anche della
harrisoniana Love You To, però ci
sono anche i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, se non addirittura i Doord di
The End. (Riccardo Storti)
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