domenica 10 giugno 2018

VANTOMME VEGIR feat. Tony Levin - "Vantomme Vegir feat. Tony Levin" (Moonjune, 2018)


Dalle Fiandre ai Paesi Bassi per assistere ad un live degli Stickmen di Tony Levin, Pat Mastelotto e Markus Reuter. Questo è Dominique Vantomme, pianista belga dalla profonda preparazione e dalla proteiforme contagiosità sperimentale. Il musicista non ha solo modo di seguire, come un nomade delle sette note, l’ensemble ma viene in contatto con loro e – guarda un po’ – con Leonardo Pavkovic della Moonjune che, dato un ascolto ad alcuni demo del nostro, si inventa una produzione niente male.
Oltre a Levin, la squadra per le scritture di Ventomme viene assemblata intorno al chitarrista Michel Delville (The Wrong Object, DouBt e Machine Mass) e al batterista Maxime Lessens, anch’essi entrambi belgi. Nasce così il Vantomme Vegir feat. Tony Levin, al contempo sigla della band e titolo del CD.
Mi piacerebbe definirlo un lavoro di jazz-post-rock. Provo a spiegarmi meglio: ogni brano parte da un’idea melodico-armonica, che consente calcolate improvvisazioni sia alle tastiere di Vantomme, sia alla sei corde di Delville; il tutto viene sostenuto dall’essenzialità dei groove ritmici. In questo si avverte un’attitudine jazzistica, però, mediata da pratiche dinamiche di un rock frontaliero che ha radici tanto nei King Crimson, quanto nei Magma. Però non siamo negli anni Settanta: nessuna nostalgia. Il panorama sonoro, alla resa dei conti, finisce per essere aderente al presente, a quanto, talvolta, è stato lasciato in eredità da un post rock ormai entrato nella tradizione (mi riferisco alle continue spinte a dilatare i suoni affinché si facciano note costruttive per il pentagramma e non viceversa; le stesse ricadute interpretative trasformano la composizione sempre più in quella che Umberto Eco definiva un’ “opera aperta”).  
L’opener Double Down si presenta come un’enorme massa atmosferica che si avvita su se stessa attraverso un unico polo accordale, sullo streaming in crescendo timbrico del piano elettrico, mellotron, stick, batteria fino alla chitarra esplosiva di Michel Delville (lo stesso modulo, sebbene più statico, caratterizza il tessuto dark orientaleggiante di Plutocracy). Equal Minds e Sizzurp colpiscono gli interludi rumoristici in bilico tra sfoghi crimsoniani, musica contemporanea e avanguardia noise.
Gli episodi di piano elettrico di Playing Chess with Barney Rubble hanno qualcosa di zawinuliano, un po’ come se i Weather Report, pur essendo caduti nel fango dell’hard rock, non avessero perso nulla della loro classe. Simile trama avvertibile anche nelle sequenze in 7/8 di The Self Licking Ice-Cream Cone (dove nella prima parte si stagliano felici riferimenti ad un clima canterburiano). L’album ritaglia anche un consistente spazio al Levin solista nell’affascinante incipit di Agent Orange: basso elettrico e stick creano una serie di motivi a cui si uniscono la chitarra riverberata di Delville (il sound, uno strano mix di New Wave e fusion anni Ottanta) e l’immancabile marca Fender Rhodes di Vantomme.
Convincente pure Emmetropia, brano che sigilla la chiusura del CD: una forte tensione di ostinato trascinamento ritmico, reso ancora più incerto dalle urla della chitarra di Delville. All’inizio la traccia cresce su una scala discendente cromatica di basso, da cui si dipanano distorsioni tastieristiche irte di dissonanze, mentre la batteria martella senza pietà in background; gli sviluppi si giocano su brevi e minime variazioni fino alla conclusione, affidata ad una singola nota ossessiva di chitarra, come se, quella, fosse la cellula primigenia di tutto. (Riccardo Storti)      

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