Dalle Fiandre ai Paesi Bassi per
assistere ad un live degli Stickmen di Tony Levin, Pat Mastelotto e Markus
Reuter. Questo è Dominique Vantomme, pianista belga dalla profonda preparazione
e dalla proteiforme contagiosità sperimentale. Il musicista non ha solo modo di
seguire, come un nomade delle sette note, l’ensemble ma viene in contatto con
loro e – guarda un po’ – con Leonardo Pavkovic della Moonjune che, dato un
ascolto ad alcuni demo del nostro, si inventa una produzione niente male.
Oltre a Levin, la squadra per le
scritture di Ventomme viene assemblata intorno al chitarrista Michel Delville
(The Wrong Object, DouBt e Machine Mass) e al batterista Maxime Lessens,
anch’essi entrambi belgi. Nasce così il Vantomme Vegir feat. Tony Levin, al
contempo sigla della band e titolo del CD.
Mi piacerebbe definirlo un lavoro
di jazz-post-rock. Provo a spiegarmi meglio: ogni brano parte da un’idea
melodico-armonica, che consente calcolate improvvisazioni sia alle tastiere di
Vantomme, sia alla sei corde di Delville; il tutto viene sostenuto dall’essenzialità
dei groove ritmici. In questo si avverte un’attitudine jazzistica, però,
mediata da pratiche dinamiche di un rock frontaliero che ha radici tanto nei
King Crimson, quanto nei Magma. Però non siamo negli anni Settanta: nessuna
nostalgia. Il panorama sonoro, alla resa dei conti, finisce per essere aderente
al presente, a quanto, talvolta, è stato lasciato in eredità da un post rock
ormai entrato nella tradizione (mi riferisco alle continue spinte a dilatare i
suoni affinché si facciano note costruttive per il pentagramma e non viceversa;
le stesse ricadute interpretative trasformano la composizione sempre più in
quella che Umberto Eco definiva un’ “opera aperta”).
L’opener Double Down si presenta come un’enorme massa atmosferica che si
avvita su se stessa attraverso un unico polo accordale, sullo streaming in
crescendo timbrico del piano elettrico, mellotron, stick, batteria fino alla
chitarra esplosiva di Michel Delville (lo stesso modulo, sebbene più statico,
caratterizza il tessuto dark orientaleggiante di Plutocracy). Equal Minds
e Sizzurp colpiscono gli interludi
rumoristici in bilico tra sfoghi crimsoniani, musica contemporanea e
avanguardia noise.
Gli episodi di piano elettrico di
Playing Chess with Barney Rubble
hanno qualcosa di zawinuliano, un po’ come se i Weather Report, pur essendo
caduti nel fango dell’hard rock, non avessero perso nulla della loro classe.
Simile trama avvertibile anche nelle sequenze in 7/8 di The Self Licking Ice-Cream Cone (dove nella prima parte si
stagliano felici riferimenti ad un clima canterburiano). L’album ritaglia anche
un consistente spazio al Levin solista nell’affascinante incipit di Agent Orange: basso elettrico e stick
creano una serie di motivi a cui si uniscono la chitarra riverberata di
Delville (il sound, uno strano mix di New Wave e fusion anni Ottanta) e
l’immancabile marca Fender Rhodes di Vantomme.
Convincente pure Emmetropia, brano che sigilla la
chiusura del CD: una forte tensione di ostinato trascinamento ritmico, reso
ancora più incerto dalle urla della chitarra di Delville. All’inizio la traccia cresce
su una scala discendente cromatica di basso, da cui si dipanano distorsioni
tastieristiche irte di dissonanze, mentre la batteria martella senza pietà in
background; gli sviluppi si giocano su brevi e minime variazioni fino alla
conclusione, affidata ad una singola nota ossessiva di chitarra, come se,
quella, fosse la cellula primigenia di tutto. (Riccardo Storti)
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