domenica 7 aprile 2019

IL BALLO DELLE CASTAGNE - "Soundtrack for an Unreleased Herzog Movie" (SPQR, 2015)


Il Ballo delle Castagne è una band dell’underground genovese molto atipica. Nata nel 2007 da un’idea del cantante e paroliere Vinz Aquarian e del musicista Marco Garegnani, l’entità – a cui si aggregarono presto altri componenti (Diego Banchero al basso e Jo Jo alla batteria) – sfornò due CD (Kalachakra nel 2010 e Surpassing All Other Kings nel 2012) che ben esemplificano il melange stilistico della loro creatività sonora, in bilico tra psichedelia, hard rock e new wave.
Proprio durante la lavorazione dei due lavori citati, Vinz e Garegnani misero da parte diverse tracce che, nel 2015, con un’opera di revisione, divennero il contenuto ideale per una “colonna sonora di un inedito film di Herzog” (per l'album, cliccate qui).
Si tratta di 7 composizioni, sviluppate sul ponte tra Oriente e Occidente, gettato dalle primordiali passioni itineranti dell’ensemble, che non ha mai nascosto un equo interesse sia per la musica del Medio Oriente, sia per il kraut rock. In realtà, ad un’analisi più approfondita dei brani, ci accorgiamo che il range si ampia, anche sul piano dei contenuti, visto i riferimenti diretti a culture mistiche non univoche.
L’opener In the Garden of Popol Vuh suona come un esplicito omaggio al gruppo tedesco che compose diverse colonne sonore per Werner Herzog: certo, i Popol Vuh acustici e magici di In den Gärten Pharaos ma la multiforme atmosfera generale lascia emergere campionature gregoriane ed effetti ambientali del Battiato de I cancelli della memoria e L’Egitto prima delle sabbie (riferito alle ossessive scale in glissando reiterate da uno strumento a tastiera).
L’Oriente ha tratti space in Lentus in umbra, dove lo spettro variegato dei cordofoni in azione (si distinguono chitarre, sitar e, forse, un salterio turco – un kanun? – e un bouzouky) si amalgama alle tessiture dei sintetizzatori e alla tradotta metrica delle percussioni; senza dubbio la track più orecchiabile di tutto il disco, insieme a Profumi d’Oriente (quando il rebetiko incontra il mellotron).
Il pianto di Cristo su Gerusalemme e Sicut in caelo raccontano, in maniera assai trasfigurata, alcuni episodi tratti dai Vangeli. La prima composizione veleggia tra musica contemporanea, psichedelia, progressive e kraut rock: i richiami potrebbero essere molteplici dai Popol Vuh al Battiato di Pollution, dagli U.T.O. ai Pink Floyd, dai Magma al Balletto di Bronzo. È l’unico brano del disco che prevede l’intervento della line-up a quattro (Vinz Aquarian, Garegnani, Banchero, Jo Jo) più una vocalist (Maethelya); per il resto, l’esecuzione è affidata ai due fondatori (eccetto per Profumi d’Oriente dove c’è la chitarra di Roberto Lucanato, attuale chitarrista, e solo la voce di Vinz).
In Sicut in caelo prevale una sequenza pianistica in 6/4 che accompagna, all’inizio, la declamazione di Vinz, per poi evolversi in un’improvvisazione sul tempo di 6/8; sullo sfondo alcune pennellate di sintetizzatore valorizzano ulteriormente questa pagina memore di Philip Glass e del Battiato de Il mercato degli dei.
Struttura musicale non dissimile che ritroviamo in Il sole muore: Garegnani, prima all’organo poi al pianoforte, produce una melodia di 4 battute su 5 accordi, sulla quale si innesta la declamazione di Vinz Aquarian e, successivamente, un solo di chitarra dall’impasto gilmouriano, ma, che, in sintonia con il mood “avantgarde” del CD, si suiciderà in una barbara selva di modulazioni dissonanti.
Finale ad anello: 6:35 Minuten vor dem Ende der Zeit Explodiert die Erde si riprende il clima dell’inizio; Garegnani si avvale di campionature e sintetizzatori, mentre nel background si avvertono voci in movimento. L’Oriente è esemplificato da una melopea di flauto e dagli arpeggi ipercinetici di un cordofono lontano nello spazio e nel tempo; l’Occidente sono i suoni sintetici e l’eco distante di un soprano wagneriano. Titolo apocalittico, ma noi non ci fidiamo; d’altra parte cosa si dice in un verso de Il sole muore? “Eterna è la musica/ che con noi non finisce.”
(Riccardo Storti)
      

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