domenica 19 maggio 2019

GOAD - "Landor" (Black Widow Records, 2018) - prima parte


Da Maurilio Rossi, leader e mente creativa dei Goad, bisogna aspettarsi di tutto. Non sta fermo un attimo. Un mare in piena. Nel 2016 stava appena uscendo Moonchild, che Maurilio e la sua equipe erano già in sala di incisione per un nuovo lavoro.
Si trattava di Landor, uscito la scorsa estate, mentre il nostro era già in cantiere per il recupero di inediti, volti alla pubblicazione di un doppio CD. Così raccontava Maurilio al nostro amico Athos Enrile di Mat2020.
La scintilla è scaturita dalla lettura degli epigrammi del poeta inglese Walter Savage Landor, un contemporaneo di Foscolo, Beethoven, Porta, Schelling,  Hölderlin, Coleridge e Wordsworth. Vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento, si trovò ad attraversare varie temperie e, da buon amante del Rinascimento italiano, decise di stabilire la sua ultima dimora nell’amata Firenze, dove venne tumulato nel 1864 presso il Cimitero degli Inglesi, vicino alla tomba dell’amica poetessa Elizabeth Browning.
Rossi si imbatte in Brevities, volumetto di epigrammi scritti da Landor, e su questo canovaccio costruisce un concept “lirico” parendo dai versi per colorarli di musica e di suoni.
L’effetto che ne scaturisce è quello di un album molto intenso, dove le usuali tonalità darkeggianti lasciano spazio ad aperture solari sinfoniche in un arazzo progressive dalle solide radici tradizionali, ma che, comunque, non adombra l’approccio autonomo mantenuto negli anni dai Goad.
Spicca come sempre il timbro vocale di Rossi: le similitudini con Peter Hammill, Roger Waters e Roger Chapman sono la chiave di volta che consentono al nostro di miscelare con consapevole abilità espressioni interpretative diverse tra loro (dal cantato al recitativo).
Non potete non apprezzare questo disco se amate i Van Der Graaf Generator (Where Are Sighs), i King Crimson (Bolero e Decline of Life), i Pink Floyd (On Music), i Family (Written on the First Leaf of My Album) e i Genesis di The Lamb (An Old Philosopher).
Con relativa sorpresa, ci capita addirittura di cogliere agganci con la Penguin Café Orchestra (Defiance e Brevities), la new wave che flirtava con certi sequencer minimal (The Rocks of Life) e la colonna sonora (Evocation).
Talvolta alcuni brani sono una vera e propria sintesi di elementi “spia”, incastonati con attenzione artigianale; su tutti è paradigmatico il binomio Goodbye, Adieau e Life's Best: la combinazione chitarra acustica e moog (solo in Goodbye, Adieau) ci porta dalle Orme, ma il drumming, la slide guitar e la voce rimandano ai Pink Floyd, l’organo e le tensioni armoniche ci spostano verso i Van Der Graaf mentre il mellotron ha una decisa marca crimsoniana, così come il violino che, suonato sul registro più grave, è simile alla viola di David Cross. Non è un Frankestein del prog, ma un sincretismo realizzato con cura e passione mnemonica.    
Seminati in tutto il disco, emergono lasciti del neoprog anni Novanta (la punta in To One Grave), di cui i Goad sono stati una presenza rilevante nel panorama italiano, se non altro per continuità e militanza stilistica.
E, a tal proposito, non è proprio casuale che nella confezione troviamo un altro CD con la registrazione di un concerto del 1995 tenutosi al “Parterre” di Firenze, un tributo ad Edgar Allan Poe, di cui vi parlerò la prossima settimana.
(Riccardo Storti)

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